Attualità
Preoccupante aumento di neonati ricoverati per pertosse

L’Italia sta affrontando una preoccupante recrudescenza di casi di pertosse, con un incremento delle ospedalizzazioni dell’800% rispetto agli anni precedenti.
Da gennaio a maggio 2024, sono stati registrati 110 casi di pertosse, un aumento significativo che ha portato a oltre 15 ricoveri in terapia intensiva.
È stato Alfredo Guarino, presidente della sezione Campania della SIP, a rendere pubblici questi dati in ambito di un progetto PNRR.
Si tratta di una preoccupante intensificazione soprattutto per i neonati.
La pertosse, nota anche come tosse convulsa, è causata dal batterio Bordetella pertussis. I sintomi iniziali possono essere simili a quelli di un comune raffreddore, ma con il progredire della malattia si manifestano accessi di tosse violenti e difficoltà respiratorie. Nei casi più gravi, soprattutto nei bambini e negli anziani, la pertosse può portare a complicazioni severe, richiedendo il ricovero in terapia intensiva.
Gli esperti, tra le principali cause indicano il calo delle vaccinazioni, unita alla maggiore mobilità e alla riapertura delle scuole e delle attività dopo le restrizioni per la pandemia di COVID-19.
Il vaccino contro la pertosse è parte del calendario vaccinale obbligatorio per i bambini in Italia, ma è disponibile anche per gli adulti, in particolare per coloro che lavorano a stretto contatto con i neonati o con persone immunocompromesse.
Negli ultimi cinque mesi, nel Pronto soccorso dell’ospedale di Cristina di Palermo (un vero e proprio punto di riferimento per la Sicilia Occidentale) si è notato un preoccupante aumento di casi, con oltre quaranta bambini divisi tra lattanti e neonati ricoverati.
Secondo le autorità sanitarie è essenziale che ogni cittadino faccia la propria parte, aderendo alle campagne di vaccinazione, seguendo così le raccomandazioni mediche.
Attualità
Decreto Salvini bocciato: la Cassazione mantiene “genitore” sui documenti

Per la Corte sarebbe discriminatorio e illegittimo privare il minore di un documento d’identità che non rappresenti a pieno la sua reale famiglia, il contrario di ciò che voleva raggiungere Salvini.
E’ deciso, non ci saranno più né “padre” né “madre” sui documenti dei figli, ma un generico “genitori”. La Cassazione a tal proposito, ha respinto il ricorso del ministero dell’Interno affermando che, privare un minore di un documento d’identità che non rappresenti al sua vera famiglia, sia un atto discriminatorio e illegittimo.
COSA COMPORTA
Ciò significa che è legittima la disapplicazione del decreto del Viminale del 2019, che consente unicamente di indicare sul documento i due genitori come padre e madre. Dunque la Corte d’Appello dice “sì” alla modifica in “genitore 1” e “genitore 2” sulla carta d’identità, bocciando così il decreto Salvini.
LE PAROLE DEI GIUDICI
I giudici della Corte Suprema, il collegio coordinato da a Maria Acierno e composto dai consiglieri Laura Tricomi, Giulia Iofrida, Alessandra Dal Moro e Alberto Pazzi come consigliere estensore, scrivono sulla modifica approvata: “L’effetto finale, irragionevole e discriminatorio dell’assunto del ministero sarebbe stato quello di precludere al minore una carta d’identità valida per l’espatrio, solo perché figlio naturale di un genitore naturale e di uno adottivo dello stesso sesso“.
La Cassazione ricorda di aver riconosciuto “rispetto a una coppia omoaffettiva femminile, che l’adozione in casi particolari si presta a realizzare a pieno il preminente interesse del minore alla creazione di legami parentali con la famiglia del genitore adottivo, senza che siano esclusi quelli con la famiglia del genitore biologico“.
Ormai sono da anni che continua la battaglia tra Viminale e vari Comuni che hanno trascritto all’anagrafe i due genitori di coppia omosessuale come due madri o due padri, ora la Cassazione ha dato il via libera e bocciato il decreto Salvini.
Attualità
KFC vende carne umana? Web indignato dopo il nuovo spot pubblicitario – Video

KFC, (acronimo di KFC CORPORATION), presente dal 1952 con il nome di KENTUCKY FRIED CHICKEN, ad oggi risulta essere una delle più famose catene alimentari statunitensi, specializzata soprattutto in pollo fritto e con un menù che comprende panini burger, patatine e wrap di ogni genere.
Il breve cortometraggio pubblicitario uscito a marzo per promuovere le portate, progettato recentemente dalla Mother London, sembra invece scatenare sui clienti l’effetto opposto, sollevando una serie di interrogativi e audaci teorie complottiste riguardo la provenienza degli ingredienti utilizzati.
LA PUBBLICITÀ
Lo spot si apre in una foresta dall’atmosfera enigmatica e dai toni quasi glaciali.
Qui, un ragazzo, dopo un breve contatto visivo con un pollo, viene coinvolto in una sorta di rituale di sacrificazione; condotto prima da un’orda all’interno un fiume, per poi finire immerso in acqua, che poi scopriamo essere olio bollente.
Una volta tirato fuori dall’ olio per frittura, assume le caratteristiche di un gigantesco pezzo di pollo, la stessa forma del pollo del KFC.
LA TEORIA
Gli utenti dopo l’uscita della campagna pubblicitaria, con legittimo sconcerto si sono chiesti che tipo di allocuzione possa mai suggerire la realizzazione della clip, e per quale motivo scegliere proprio un essere umano immerso nell’olio bollente invece che un pollo.
Cosi, alcuni influencer e persino una vasta gamma di consumatori abituali, sono arrivati ad ipotizzare possa trattarsi di un vero e proprio messaggio subliminale che faccia riferimento al cannibalismo, mostrando pertanto, senza necessariamente dichiararlo apertamente, l’ambigua provenienza della componente degli ingredienti utilizzati (che si traduce in vera e propria carne umana, insomma.)
Ma perché utilizzare carne umana invece che animale? Qual’è la base di questa teoria?
Si tratterebbe, stando agli ideatori del complotto, di una decisione determinata dall’assenza del numero dei polli per le 18 mila catene di ristoranti distribuite in ben 115 paesi.
Numeri molto alti ovviamente, ma che possono essere spiegati grazie alla precedente inchiesta sotto copertura in quattro allevamenti intensivi per un fornitore del marchio in Italia, realizzata dall’associazione Essere Animali, a sua volta contattata da Fanpage.
Nei filmati era emerso come venisse modificato il normale ritmo di crescita per far sì che in circa 40 giorni i polli possano arrivare al peso di macellazione, potendo cosi raggiungere il numero di oltre 500 milioni di polli solo in Italia, (condizione che ovviamente provoca gravi problematiche agli animali; quindi, se l’indagine può effettivamente chiarire come il pollo venduto dal KFC possa bastare per 8 milioni di clienti, finisce per sollevare ulteriori dubbi sul benessere animale.)
Ma allora perché mai realizzare uno spot pubblicitario del genere?
LA REALIZZAZIONE DEL CORTOMETRAGGIO
Che fosse un’alternativa strategia di marketing o meno, i responsabili della campagna pubblicitaria hanno rilasciato delle dichiarazioni che, implicano e sottointendono, a discapito della vivace teoria, la realizzazione del progetto sia ben distante dall’obiettivo di voler divulgare un messaggio subliminale riferito al cannibalismo.
Il direttore è tralaltro Vedran Rupic, già noto per la la particolarità dei suoi contenuti… non c’è quindi da sorprendersi se abbia optato per una satira dai toni onirici che mixa elementi di cultura e religione.
Monica Silic, responsabile delle attività di Marketing di KFC UK e Irlanda, spiega quale fosse l’effettivo intento dell’azienda “è il nostro modo di condividere la nostra ossessione per il pollo, offrendo al pubblico qualcosa di divertente in cui credere”
Il direttore creativo ed esecutivo di Mother London, nonchè Martin Rose, chiarisce “KFC è un’icona, tutto il nostro lavoro la rispetta e rispetta anche il pubblico, che dovrebbe capire che la logica va messa da parte per quei 120 secondi.”
Attualità
Settantacinque coltellate e nessuna crudeltà? Il paradosso del processo Turetta

Nel teso silenzio di un’aula di tribunale, dove si dovrebbe cercare giustizia per una vita spezzata troppo presto, è invece risuonata una verità giudiziaria che ha fatto rabbrividire molti.
Settantacinque coltellate. Un numero che pesa come piombo, e che graffia la coscienza collettiva.
Eppure, secondo il giudice, non sono il riflesso di una crudeltà feroce, ma piuttosto il segno di un’inabilità emotiva, di un ragazzo che “non sapeva gestire il rifiuto”.
Filippo Turetta, imputato per l’omicidio di Giulia Cecchettin, ha colpito la sua ex ragazza con un accanimento che lascia senza fiato, esattamente 75 volte.
Eppure, il processo ha preso una piega che ha spiazzato l’opinione pubblica: quelle coltellate non sarebbero, tecnicamente parlando, prova di crudeltà. (Non agli occhi della legge, almeno). L’accento, invece, è stato posto sulla sua fragilità psicologica, sulla sua incapacità di elaborare l’abbandono, sull’inesperienza relazionale.
Ma dove finisce l’incapacità e dove inizia la responsabilità?
Giulia non è morta “per caso”, nè tanto meno ”in un momento di confusione”. È stata inseguita, aggredita e massacrata.
E ora, mentre il dibattito si infiamma fuori dalle aule, c’è chi si chiede se la legge, così com’è, sia davvero in grado di proteggere, di punire e soprattutto di saper educare.
Questo processo è un simbolo, e non solo della violenza di genere, ma anche delle crepe nella nostra giustizia, della fatica di dare un nome esatto al dolore… si tratta, per la giustizia, di “inabilità.”
Ma se questa è solo inabilità, allora cos’è la crudeltà?
Intanto, fuori dal tribunale, c’è una famiglia distrutta, una sorella che grida per “tutte le altre Giulia”, e una società che guarda e si chiede: chi sta davvero pagando il prezzo di questa sentenza?
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